Al giorno d’oggi la vita frenetica e il nuovo linguaggio di internet, rapido e caratterizzato da simboli ed emoticon, ha oscurato di molto la saggezza popolare, che per diversi secoli ha imperversato con i suoi detti, donando consigli celati dietro a frasi più o meno misteriose.
Nei decenni passati, soprattutto in ambito contadino, era consuetudine parlare alla propria famiglia utilizzando delle espressioni a effetto, che dessero la possibilità di riflettere sulla vita e sulla sua imprevedibilità, lasciando un messaggio importante senza appesantire l’atmosfera con troppe parole.
La caratteristica dei motti popolare è proprio la loro brevità, il fatto che in pochi termini sia racchiuso gran parte del sapere comune che viene tramandato in questo modo di generazione in generazione.
Una regione tradizionale come la Campania, che fa degli usi e dei costumi un vanto nel mondo, non poteva certamente prescindere da una cultura di questo tipo, spolverando una serie di modi di dire che non solo vi faranno ridere, ma vi consentiranno anche di meditare a fondo sui messaggi semplici che è possibile ottenere ideando la frase giusta, dal sapore geniale e incisivo.
In questo articolo analizzeremo nel dettaglio i migliori 5 detti napoletani e il loro significato, così che possiate utilizzarli se l’occasione lo consente o comunque sarete in grado di trarre un importante insegnamento da condividere poi con le persone a voi più care.
Nonostante la tecnologia vada avanti e la vita diventi sempre più organizzata e moderna, è infatti molto importante non dimenticare le proprie radici popolari e antiche, il modo in cui i nostri avi sono vissuti e quello che è il loro lascito, magari non materiale ma fortemente spirituale.
Solo in questo modo è possibile far sopravvivere l’anima di una regione, conservando con cura gli elementi che la rendono particolare rispetto alle altre e soprattutto unica. Napoli e la sua realtà sono una vera e propria chicca del nostro paese, a livello artistico, enogastronomico ma principalmente folkloristico, quindi non perdete quanto sotto e continuate a leggere!
Acqua e’ maggio, parole e’ sagge
Iniziamo il nostro excursus dei detti napoletani più famosi con uno che si riferisce direttamente alla vita dei campi e al ciclo naturale della natura.
In passato, capitava spesso che tali motti fossero messi a punto proprio dai contadini che, non avendo altri termini di paragone ai quali riferirsi, creavano delle similitudini tra gli stati d’animo e ciò che conoscevano meglio, cioè il territorio circostante.
In questo caso il paragone che si intende fare prevede una somiglianza tra la quantità di acqua che proviene dalle piogge del mese di maggio e i consigli che vengono dati da una persona saggia.
In particolare, si ritiene che coloro che ragionano in modo corretto e accumulano una certa esperienza siano più propensi ad aiutare il prossimo ed elargire quindi utili suggerimenti nel corso del tempo. Interessante è il parallelo tra le parole benefiche di coloro che conoscono bene la vita e i suoi risvolti e l’acqua che cade dal cielo e permette al raccolto di crescere, essendo la primavera il mese della rinascita e della fioritura.
I prodotti della terra erano infatti la risorsa più importante che i contadini possedevano nelle epoche passate, poiché consentivano di sfamare l’intera famiglia e sopravvivere con la vendita delle eccedenze.
Paragonarli alle parole di un saggio significava dare loro una nuova dignità ed elevarli rispetto al loro rango campestre. Si tratta di un proverbio che viene ancora oggi utilizzato di frequente quando nel mese di maggio le precipitazioni si fanno davvero abbondanti e il tempo si mantiene instabile in attesta dello scoppio dell’estate.
Se vi recate a Napoli, quindi, vi capiterà di sentire qualcuno pronunciarlo tra i denti, tentando di aprire l’ombrello se un acquazzone improvviso tenderà a colpirlo.
Vediamo adesso cos’altro ci riserva la saggezza popolare, dalla quale è sempre possibile trarre utili insegnamenti e lasciarsi trasportare in una dimensione antica e ancestrale che è un vero peccato perdere e non far conoscere alla generazioni che verranno in futuro.
A cuoppo cupo poco pepe cape
Proseguiamo con un detto napoletano che a prima occhiata è davvero difficile da interpretare ma soprattutto pronunciare.
Appare infatti come un vero e proprio scioglilingua, paragonabile a quelli in italiano che da piccoli la vostra nonna vi insegnava per in trattenervi, come sopra la panca la capra campa, sotto la panca la capra crepa.
Se però in quei casi si trattava spesso di un mero esercizio linguistico, in questo invece il significato è ben preciso e mira a identificare una determinata categoria di persone che stenta a capire bene ciò che gli viene trasmesso e comunicato.
Facciamo però un passo indietro, poiché il cuoppo al quale si fa espresso riferimento altro non è che un cartoccio di carta grezza che raccoglie una serie di invitanti fritti.
Può trattarsi di pizza, mozzarelle, riso o alghe, a seconda della composizione che si intende realizzare. Il moto recita letteralmente che all’interno di un cuoppo stretto non può entrare molto pepe, una metafora che sottolinea come in una testa dalle vedute limitate non è possibile inserire troppi concetti o in ogni caso eccessivamente complessi.
Sono diverse in napoletano le frasi di questo genere che si riferiscono a tale condizione di stupidità, perché si parla di un popolo sveglio e arguto, che gode della battuta e del dialogo intelligente, soffrendo notevolmente quando questo latita.
Per un napoletano, interfacciarsi con una persona che poco comprende il discorso è una vera e propria frustrazione, che merita di essere evidenziata con un’espressione idiomatica e in questo caso anche onomatopeica.
È possibile notare come il paragone venga fatto ancora una volta con il cibo, a evidenziare come questo elemento rivesta un ruolo di primo piano nella cultura popolare e venga identificato come metro di paragone dell’intelletto e dell’eventuale stupidità.
Visitando Napoli vi capiterà di vedere un suo abitante pronunciare questa frase, magari con un sorriso ironico ma intento comunque a colpire la persone che ha davanti con un’espressione sarcastica e divertente.
A Madonna t’accumpagna
Come non citare un’espressione che non solo è ormai da tempo parte della cultura popolare, ma che si sente spesso pronunciare alche al di fuori dei confini della città.
Si tratta di una frase collocata esattamente nel mezzo, tra i sacro e il profano, poiché indica un buon augurio per coloro che lasciano un luogo, si distaccano da una persona o addirittura dalla terra di origine.
Probabilmente la ricorderete pronunciata dalle labbra di Luciano De Crescenzo, che ne fece un marchio di fabbrica e un segno riconoscibile della propria arte.
In realtà, la nascita di questo saluto si deve al cardinale Crescenzio Sepe, che lo utilizzava per terminare in maniera sentita e poetica le proprie messe e lasciare che i fedeli uscissero con la protezione della Madonna sulle loro teste.
Partiamo dal presupposto che i napoletani sono un popolo fortemente religioso e superstizioso, che raccoglie ogni segno che la vita lancia interpretandolo in modi pittoreschi e attribuendolo alla potenza della componente divina.
Ma da cosa deriva veramente questa espressione idiomatica?
Il racconto storico ci informa che nel corso del 1700 il sovrano Ferdinando IV notò come le strade della città fossero davvero buie e pericolose la notte, mettendo in apprensione gli abitanti di Napoli che si accingevano a percorrerle talvolta con mezzi poco sicuri.
Per questo motivo pensò di creare un’illuminazione artificiale che potesse ovviare al problema, inserendo dei veri e propri lampioni in prossimità della sua residenza ma anche sulle strada più battute.
Nonostante i buoni propositi del re, la criminalità continuava ad essere molto elevata e l’idea geniale venne a padre Gregorio Maria Rocco, un eminente religioso al servizio della chiesa locale.
Assicurò che la monarchia non avrebbe speso un soldo e utilizzò centinaia di immagini della Madonna, inserendole all’interno di altrettante edicole votive che si trovavano in ogni angolo della città.
Affermò quindi di fronte al popolo che ora che la madre di Gesù era dalla loro parte nessuna via sarebbe stata troppo pericolosa e che i malintenzionati sarebbero stati fermati dalla componente divina.
Così non fu, ma l’espressione colorita è rimasta e la vedrete pronunciare spesso con tanto di mimica facciale e gestuale da molti di coloro che incontrerete nel capoluogo partenopeo.
La cocozza e tutto il cucuzzaro
Chi di noi non ha avuto modi di vedere il film di Totò dove veniva pronunciata questa frase o almeno il celebre spezzone?
Si tratta di un’immagine storica, che racchiude parte della cultura napoletana grazie a colui che meglio è riuscito a rappresentarla nel corso del tempo e divenire emblema di un popolo.
Il termine cocozza accomuna in realtà tutto il sud Italia e indica letteralmente una zucca; viene utilizzata solitamente durante un gioco per bambini che prevede un’allegra canzoncina, chiamato appunto gioco del cucuzzaro, di origine molto antica e che purtroppo negli ultimi tempi è andato perso a favore di altre occupazioni più tecnologiche.
In sostanza un capo turno, detto appunto cucuzzaro, assegna un numero a proprio piacimento agli altri partecipanti, detti cocozze.
Vieni quindi pronunciata la frase – Sono andato nel mio orto e ho raccolto – terminando con una cifra, alla quale la persona corrispondente deve rispondere.
Nel caso in cui questo non accada, viene eliminata dal gioco e si passa al concorrente successivo.
Nel corso del tempo questa attività ludica si è trasformata anche in un detto popolare molto utilizzato, che sta ad indicare una moltitudine di individui che seguono un capo, un insieme che si affida in maniera piuttosto automatica.
Si tende a dire in riferimento a una persona che ha un gran seguito che lo celebra e lo acclama per le sue doti.
Ancora una volta notiamo come gli atteggiamenti umani vengano messi a paragone con i prodotti della terra, che fungono da perfetto termine di paragone poiché elementi conosciuti di vita quotidiana, essenziali per la sopravvivenza della classe contadina che era colei che inventava proverbi di questo genere.
Vediamo adesso qual è l’ultimo motto napoletano tra i più famosi del posto!
Adda venì baffone
Terminiamo il nostro excursus con un’espressione piuttosto oscura, che molti di voi avranno avuto modo di sentire e si saranno chiesti esattamente qual è suo significato.
Chi sarà esattamente Baffone, citato così spesso dai napoletani?
Il contesto è quello di una crisi economica molto profonda, quando la popolazione non ha mezzi di sussistenza necessari per andare avanti e quindi, per lenire la preoccupazione, invoca una figura leggendaria che dovrebbe risolvere la situazione e salvare i poveri.
Il riferimento in realtà è piuttosto chiaro e si colloca nel periodo dell’occupazione nazista, quando la libertà di pensiero e parola era molto limitata e si invocava un potere forte come quello del dittatore Stalin che, secondo l’opinione comune e i racconti mitici, poteva essere l’unico in grado di cacciare e sconfiggere gli invasori.
All’epoca non era ben nota la realtà della Russia e le prevaricazioni che questa stava subendo, vedendo quella realtà politica come un’isola felice nella quale rifugiare i propri pensieri.
A diversi decenni da questa situazione, metaforicamente a Napoli si attende ancora l’arrivo del baffone, a voler indicare una realtà che deve mutare per con l’intervento del fato.
Lo sentirete pertanto pronunciare quando le cose non saranno esattamente come previsto, in maniera ironica e scherzosa, tendendo sempre presente la difficoltà nella quale versava la popolazione nel passato e la speranza che si nutriva in questa fantomatica figura salvifica.
Questa volta la fonte non è la natura bensì la storia, che funge da importante bacino di insegnamento e consente di trarre una morale anche dagli eventi più tragici e difficili da superare.
Proprio per tale motivo è importante per le generazioni future conoscere l’origine dei detti, poiché è possibile prendere qualcosa di buono e farlo proprio anche a distanza di molto tempo e in una condizione molto migliore.